Catene d’argento
Romanzo storico
Primavera 1505. Alex è un giovane stalliere che sogna la libertà. Un giorno, assieme a Hilda, serva nella stessa casa, vede morire il figlio del padrone. I ragazzi devono fuggire per non essere accusati di omicidio e uccisi a loro volta. Il rifugio ideale viene loro indicato da Melchior Katzbeck, un imprenditore minerario tirolese in visita al palazzo che si offre di nasconderli a Monteneve, la miniera più alta d’Europa nell’odierno Alto Adige. Il lavoro nel buio delle gallerie sembra un nascondiglio perfetto, ma non si può fuggire a lungo dai guai.
Capitolo 1
Alex si appoggiò al tronco e asciugò le lacrime: non aveva più l’età per piangere per le botte. «Diavolo cane.» Avrebbe voluto sedersi, ma sentiva ancora le bastonate del signor Dreyling.
E non bastava il dolore, c’era anche il ricordo di Thomas che rideva mentre veniva picchiato. Da bambino non era così, anche se già allora non faceva che ricordare a tutti che era il figlio del padrone. Ora somigliava sempre più a suo padre, e sapere che si divertiva assistendo alle punizioni univa il dolore all’umiliazione.
Quella vita doveva cambiare.
Tirò su col naso. Forse poteva sdraiarsi sul mucchio di fieno sotto la tettoia dei cavalli e sperare che nessuno lo dicesse al padrone. Raggiunse la rimessa e si lanciò sul fieno.
Ricordava ancora il giorno in cui suo padre aveva intagliato la colomba sull’albero lì dietro, il giorno in cui era arrivato lì. Da allora era cresciuto, il lavoro l’aveva reso forte, ma anche il bastone del padrone era cambiato: un morbido ramo di nocciolo aveva abdicato per una spietata verga di rovere. Ad ogni schiavo la sua punizione, che il Diavolo lo portasse.
Suo padre sbucò dal sentiero, posò un secchio vicino al muso bruno di Butterblume e si asciugò la fronte. «A che pensi?»
«A Thomas. È diventato un vero tiranno.» Non voleva parlare di libertà e schiavitù con lui, non avrebbe capito: lui aveva scelto quella vita e avrebbe ripreso a tormentarlo coi suoi discorsi sul dovere e la miseria.
«Lascia andare, ragazzo».
«Mi fa male il culo. E tu perché non dici nulla quando mi picchiano?»
«Quando l’ho fatto te ne ha date di più».
«Bene, non scomodarti».
Suo padre sospirò e osservò il cielo. «Torna a lavorare che tra poco si mette a piovere.»
«Lavorare, lavorare… Col male che ho.» Ecco che ricominciava.
«Lo so, ma c’è l’erba tagliata da rivoltare. Io, strigliato Butterblume, ho da fare in casa.»
Perché si dava tanto da fare? Come fosse stato tutto suo. Oltre allo stalliere, anche il carpentiere, il cordaio, il contadino, il fabbro ferraio… Gli ricordava quel vecchio gobbo che gli aveva insegnato a ferrare i cavalli quando era piccolo. Un ometto con le orecchie lunghe che non faceva che succhiare liquirizia con quell’unico dente di sopra. Il nome? Non lo ricordava.
Il nonnetto aveva visto la cicatrice che lo segnava dalla bocca al sopracciglio, aveva sollevato la radice scintillante di saliva e aveva tracciato in aria una linea curva. «Bella luna ti hanno disegnato in faccia, bimbo. È stato questo qui?» E aveva indicato Butterblume che allora era solo un puledro.
«Sua madre, signore.»
«Eh» aveva sospirato, «i cavalli sono diavoli, talvolta. Ne so qualcosa. Sapessi quanti calcio ho preso io… Guarda.» Gli aveva mostrato il braccio nudo piegato nel centro dell’avambraccio. Si era preso la zampa di Butterblume tra le gambe rinsecchite e aveva cominciato a raccorciare lo zoccolo col coltello, come se spellasse una mela, le scaglie erano cadute come trucioli giallastri.
Alex non aveva più avvicinato un cavallo dopo quel calcio in faccia. Li temeva come non avrebbe temuto un orso. «Ma se avete preso tante botte, com’è che non avete paura?»
«Paura?» aveva sorriso. «Tutti ne abbiamo, ma bisogna essere coraggiosi. O pensi che solo i soldati debbano esserlo?»
Alex aveva scosso la testa. Non voleva imparare a cambiare i ferri: non voleva avvicinarsi a un cavallo di nuovo.
«Sentimi, bambino.» Gli aveva puntato la liquirizia. «Fame, fatica, sfortuna, gente cattiva… Tutto ti può sopraffare. Devi avere coraggio per invecchiare. Non hai scelta.» Si era rimesso la radice in bocca e aveva ripreso a limare lo zoccolo. «Tutto ti può sopraffare, la vita stessa può farlo».
Un tuono fece scattare le orecchie di Butterblume. Nuvole scure si arricciavano oltre il palazzo Dreyling. Lì si stava al caldo. Gli avevano detto che il castello era stato un rudere pieno di spifferi a picco sul fiume per tutto il millequattrocento, ma dopo averlo acquistato Lienhart Dreyling l’aveva fatto ristrutturare, intonacare e sistemare nel modo migliore. Ora, nell’anno del Signore 1505, era un palazzo a tre piani, con un lato a strapiombo sul fiume e, per il resto, immerso in un prato pianeggiante che si estendeva fino al bosco. L’ideale per liberare i cavalli dopo la funzione domenicale.
Il signor Dreyling non si era risposato dopo la morte della moglie e aveva lasciato che fossero i molti servi a crescere Thomas che ora era uno stronzetto gracile e taciturno. Se da piccoli non avere una madre li aveva fatti sentire simili, ora somigliava sempre più a quel demonio del padre.
Ma di certo le cose sarebbero cambiate presto, ma non doveva pensarci o la buona sorte sarebbe schizzata via, ne era sicuro. Anzi, era meglio dire un’orazione.
Si alzò, suo padre spazzolava il cavallo. «Padre, vado a pregare prima che piova.»
Quello scosse la testa. «Quando ti metterai a lavorare?»
Alex lo ignorò, uscì e girò attorno alla tettoia scavalcando i noccioli. Raggiunse il suo posto segreto e si accucciò, posò un bacio sulla punta delle dita e accarezzò la colomba intagliata nel tronco del faggio. «Madre, come state?» L’uccelletto puntava al cielo. Il tempo aveva gonfiato i bordi dell’intaglio, ma era ancora ben distinguibile. «Ci sono quasi, madre. Se intercederete per me presso i Santi vostri compagni, oggi potrebbe essere il giorno. Vi chiedo tre berner. Non mi mancano che quelli: tre piccole monete. Potete mandarmele voi? Sapete che non disturberei la vostra pace celeste per qualcosa di frivolo, quindi…»
La voce roca di suo padre lo raggiunse. «Ragazzo, vieni qui!»
Ragazzo. Diciassette anni e lo chiamava ancora ragazzo. «Eccomi».
Indicava il ponte. «Arriva qualcuno».
Un uomo ben vestito si avvicinava su un cavallo bigio.
Suo padre si accarezzò il mento. «Lo sistemo vicino a Butterblume e gli do una bella inforcata di fieno».
«All’uomo o all’animale?»
«Guarda: sembra esausta, povera bestia».
Il cavallo ciondolava la testa, il cavaliere invece pareva riposato. Stava ritto sulla sella, a giudicare dagli abiti doveva essere lì per affari. Un uomo ricco, di quelli che avrebbero dato una buona mancia a un giovane stalliere intraprendente.
Alex si raddrizzò, sorrise mordendosi un labbro. «Io mi occupo del cavallo.»
«Devi andare a riparare gli scuri della torre. I cavalli sono una mia responsabilità».
«Va’ tu dagli scuri e non ti crucciare, caro padre mio. Sono meglio come stalliere che come maniscalco.» Alex si sistemò la blusa e si avviò per intercettare lo straniero sulla via.
Ora che era più vicino notava che l’uomo aveva la testa scoperta, capelli tagliati corti e castani, come la barba. Non doveva avere più di trent’anni.
«Benvenuto, mio signore. Lasciate che mi prenda cura del vostro bell’animale».
«Ti ringrazio.» Scese. Aveva un bel paio di stivaloni scuri, fisico asciutto e sguardo sagace. Chissà se si sarebbe fatto abbindolare dai suoi modi. «Tu sei lo stalliere del signor Dreyling, vero?»
«Oh, no, signore. Sono un ladro di cavalli.» Sorrise.
Anche lo straniero sorrise. «Ti sei tradito subito però. Non sei molto abile.»
«Voi dite? Eppure ho le briglie del vostro cavallo».
Quello scosse la testa. «No, no. Sei troppo cortese come ladro. Come ti chiami?»
«Alex Manlich, mio signore».
«Dio t’accompagni, Alex Manlich. Io sono Melchior Katzbeck e sono qui per vedere il tuo padrone. È in casa?»
«Credo che lo sia, mio signore. Ad ogni modo accomodatevi».
«Lo farò.» Indicò il cavallo. «Dagli da mangiare, l’ho spossato per bene».
«Sarà fatto».
Katzbeck svolse il laccio della scarsella e rovesciò delle monete nel palmo guantato. Ne prese alcune e gliele porse.
«Oh, molte grazie, mio signore! Che Dio vi protegga.» Una, due, tre, quattro.
«Quanti anni hai?»
«Diciassette, signore».
«Da come li guardi si direbbe tu non abbia mai visto un berner».
«Dite? Ne ho visti, ne ho visti, ma questi sono speciali per me».
Katzbeck rise, scosse la testa e si allontanò dritto e solido come un condottiero.
«Quattro berner.» Tirò il cavallo fino alla stalla, slacciò la cinghia sotto la sella, la sollevò e la posò sullo steccato, slacciò le briglie e le buttò a terra contro il muricciolo.
Con quelle era arrivato a un ducato, la cifra che gli serviva. Ma ora doveva dare il fieno al cavallo dell’ospite.
Raccolse la forca, la infilzò nel mucchio e vide Hilda col suo abito nero da lavoro e il solito grembiule, china sulla fontana. Aveva il capo scoperto e i capelli legati sopra la nuca, il vento strappava esili ciocche al laccio di cotone e le faceva svolazzare come panni stesi. Stringeva le labbra come faceva quando era preoccupata o molto indaffarata. La tentazione di correre a dirle dei quattro berner era forte.
Troppo forte, Alex mollò l’arnese e corse da lei.
Descrizione
Thriller storico corale
380 Pagine
Un romanzo storico su un territorio che non hai mai esplorato
L’odierno Alto-Adige nel 1500 era Tirolo. Una regione dell’Austria meridionale, un territorio di confine che ospitava persone dure abituate alle proprie regole. Lontano dalla legge di Dio e degli uomini, San Martino di Monteneve nei decenni che seguirono la fine del medioevo si riempì di minatori da tutta Europa con le loro famiglie.
Nel villaggio minerario sulla cima di Monteneve scavavano gli uomini, mentre le loro donne si spaccavano le mani nell’acqua gelata per separare il materiale ricco dalla roccia sterile.
Tutti a cercare fortuna, molti a trovare solo malattia e morte.
Tra le severe leggi del tempo e gli imprenditori stranieri, era dura arricchirsi per coloro che possedevano solo una piccola galleria. Ma la miniera, buia, fredda e pericolosa, potevae riservare delle sorprese.
Per questo il saluto dei minatori tirolesi è da sempre “Glück auf!”, buona fortuna.