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Il banchetto vegano

Gen 3, 2024 | #Racconti, Comico, Sci-fi

Tempo di lettura 15 minuti

Cesare aprì gli occhi. Tanto non stava dormendo. La cena continuava a tornargli in bocca con un aspro sapore di bile e la sua vescica doleva. Si mise seduto e cercò le pantofole. L’Alfio russava come un trattore senza marmitta. Scosse la testa e si alzò. Si avvicinò al bagno. L’odore acre di urina anticipava la solita scena: un laghetto di piscio che arrivava fin fuori la porta.

«Ma puttana la miseria, Alfio! Quanto sei rincoglionito.»

Sbuffò e uscì dalla camera per non inzuppare le pantofole. Percorse il corridoio fino al bagno per i visitatori e notò una luce da una porta socchiusa più avanti. Doveva dare una sbirciata: magari c’era il direttore con la Doris. Avrebbe avuto qualcosa da raccontare.

Una voce profonda e vibrante stava dicendo: «Almeno sei cadaveri. Dal sistema Vega sono venticinque anni luce, la delegazione sarà affamata».

«Ma certo» la voce del direttore. «Il numero non è un problema. In una casa di riposo come questa ci sono sempre molti vecchi abbandonati.»

La voce abominevole riprese. «Grazie, direttore. Manderò alcuni dei miei a darvi una mano.»

Un brivido gli strizzò la schiena. C’era qualcosa di sinistro in quella voce.

Si sporse per lanciare un’occhiata dentro e il cuore si fermò. Davanti al direttore, sull’altro lato della scrivania, era seduto un essere dalla testa grossa e lucida. Il corpo sembrava umano, ma dal collo in su diverse parti pulsavano come enormi bubboni, cambiando colore ad ogni palpito. Da forellini gonfi uscivano e rientravano sottili propaggini che si arricciavano come i tentacoli di un calamaro.

Il mostro parlò ancora. «L’importante è che non siano defunti da più di trentasei ore.»

Cesare tornò a letto appoggiandosi al muro del corridoio. Si rigirò a lungo tra le lenzuola e, al mattino, il materasso di Alfio non era l’unico bagnato.

Pioveva. L’acqua riempiva gli avvallamenti nel cortile, il ticchettio dell’orologio scandiva il tempo tra i numeri chiamati dalla volontaria. Carina. Grosse poppe sotto il dolcevita.

«Cesare, non hai segnato il sei. Ce li hai i fagioli?»

Maria lo guardava scuotendo un ventaglio. Era stata una delle più belle del paese ai suoi tempi, ma ora aveva la pelle stropicciata come un vecchio scontrino.

«Ho i miei pensieri, Mariuccia.»

«Vuoi che te li segni io i numeri?»

Cesare sospirò e le passò la cartella. Nessuno sembrava sospettare nulla, ma l’Antonio e la Zamboni non erano scesi e lui aveva ancora in testa l’aspetto e le parole del mostro: “Sei cadaveri – defunti da trentasei ore”.

Doveva esserci qualche indizio della presenza di quelle creature. I vegani, aveva detto il calamaro.

L’Alfio lo osservava col cucchiaino del budino a mezz’aria.

«Vecchio coglione.»

«Come dici, Cesare?» chiese Maria continuando a sventagliare.

«Nulla, cara. Nulla.»

Era sicuro che il compagno di stanza fosse divertito dal fatto che s’era pisciato sotto pure lui. Per fortuna dopo l’ictus straparlava. L’unica a conoscere la sua vergogna era la Doris che aveva cambiato le lenzuola.

«Ventidue.» La voce roca e cantilenante della ragazza lo infastidiva.

Qualcuno alzò il volume della tv e lui trasalì.

«Sei nervoso oggi. Hai dormito male?»

«No, che dici? Fatti i fatti tuoi, Maria.»

«Che cafone. Hai i modi di un operaio.»

«Manutentore, Maria. Impianti antincendio.»

«Lo stesso.»

Cesare si alzò. «Scusa, ma la tombola mi ha stufato. Vado a farmi un po’ di tv.»

Fece due passi e fu colpito da un pensiero: qualcosa non andava. Maria si faceva aria e non era l’unica. In quella casa di riposo dove suo figlio l’aveva abbandonato tre mesi prima faceva sempre un caldo del demonio.

Eppure la ragazza dell’animazione aveva un dolcevita.

Si sedette senza staccarle gli occhi di dosso e sentì la presa di una mano callosa. Era Alfio.

«Non diserbare un cane. È rublino della zoffa.»

«Sì, Alfio. Fottiti, vecchio matto. E finisciti ‘sto budino! Sono due ore che abbiamo pranzato.»

Il compagno scosse il capo e tornò a guardare la tv.

Cesare tornò alla ragazza. Che fosse una vegana? Passò in rassegna i presenti. Mancava anche il Borgogno e quel tizio in sedia a rotelle.

Sospirò. «Forse qualcuno ci ammazza e io sono l’unico a saperlo.»

«No, Cesare. Lo so anch’io.»

Tirò su la testa. Al di là di Alfio c’era il Mansueto seduto al suo solito posto che lo guardava con sguardo grave.

«Anche tu? E come lo hai scoperto?»

«Io sono qui da due anni, caro mio.» Scuoteva la testa per un inizio di Parkinson. «Questi ci danno da mangiare robaccia! E le infermiere sono delle streghe. Lo sai che la Doris tiene una di quelle bombolette antistupro in tasca? Per gli alzheimer aggressivi, dice. Qui veniamo a morire» bisbigliò incurvando le sopracciglia. «È come dici tu: ci ammazzano.»

«No, Mansueto, qui ci ammazzano davvero. Ci sono gli alieni in paese, alieni mostruosi che mangiano i morti. E il direttore glieli fornisce, capito?»

«Come in “Alien”?»

«Cosa?»

«O come in “Visitors”?»

«Ma di cosa parli, Mansueto?»

«Gli alieni! Tu come lo sai?»

Quella domanda centrava il punto. Nessuno sano di mente gli avrebbe creduto senza prove e lui doveva trovarne per chiedere aiuto. Se davvero volevano ammazzare dei vecchi per farli mangiare alla delegazione vegana, dovevano avere un posto dove tenerli. Magari un frigorifero.

«Tu dove terresti dei cadaveri?» chiese, sporgendosi e abbassando la voce.

«Nella sala mortuaria.»

«E che roba è?»

Mansueto si lisciò il mento e si guardò attorno. Si sporse a sua volta. «È dove portano gli ospiti morti prima che vengano trasferiti all’obitorio dell’ospedale.»

Quello poteva essere il posto giusto. Ma che poteva fare da solo? Sospirò e scosse la testa. «Siamo solo dei poveri vecchi. C’è poco da fare.»

Alfio sorrise. «Il termostato terzulla se non l’apri.»

«Appunto.»

In tv una donna con la chioma candida sorrideva, alzò una scatoletta di pasticche. «Purgolax, non farti bloccare dalla stitichezza!»

Cesare sbarrò gli occhi: era un segno. «Giusto! Non dobbiamo farci bloccare! Mansueto, non si è morti finché non si è morti. Vieni con me.» Si alzò. «Alfio, dammi quel budino.»

Senza aspettare risposta afferrò il bicchiere del compagno e s’incamminò verso le scale. Vicino alla porta della sala comune la Doris gli si parò di fronte con le mani sui fianchi.

«Cesare, torni al suo posto.»

«Subito.»

Finse d’inciampare lanciandosi contro la donna. Le lanciò il budino sul petto, urtandola infilò la mano nella tasca dell’uniforme. La donna gridò, lo scostò e guardò con orrore il budino colare nella scollatura.

«Scusa, Doris!»

Il donnone sibilò, si voltò e si diresse verso il bagno di servizio. Cesare fece un cenno al Mansueto e quello gli si avvicinò.

«Guarda qua.» Cesare mostrò lo spray al pepe, poi lo mise in tasca e prese l’amico sotto braccio. «Andiamo.»

Mansueto si lasciò condurre attraverso il corridoio deserto.

«Che se ne fa quel cerbero della Doris di ‘sta roba?»

«Gli alzheimer, te l’ho detto. Ma dove andiamo?»

«Cerchiamo la camera mortuaria. Sta’ zitto.»

Scesero le scale cercando di non far rumore.

Esaminarono un magazzino pieno di prodotti per le pulizie. Da una doppia porta più avanti uscivano delle voci rauche. La targhetta riportava “sala mortuaria”.

Un brivido di paura scosse Cesare. Forse avrebbe fatto meglio a lasciar perdere e tornare in sala comune, ma poi ripensò allo slogan “non farti bloccare”. Se c’era qualcosa che l’aveva spaventato nella vita era stata la stitichezza. Si guardò attorno. C’era un bagno in fondo al corridoio.

«Mansueto, vieni con me: ho un piano.»

Entrarono, Cesare aprì una porta e afferrò la cordicella dell’allarme vicino al water. «Tieniti pronto, Mansu.»

«A cosa?»

Cesare sospirò… e tirò.

La sirena cominciò la sua cantilena.

«Presto, andiamo a nasconderci!»

Caracollarono fino al magazzino delle scope. La doppia porta della sala mortuaria si aprì e dei passi rimbombarono nel corridoio.

Uscì col cuore che spingeva contro lo sterno, controllò attorno e fece cenno al Mansueto di seguirlo.

Entrarono nella sala dei cadaveri. Contro il muro sul fondo c’era un altarino con due candele e una statua della Madonna, ai lati erano sistemati due grandi tavoli di metallo e a terra c’erano quattro grosse buste nere con una zip. Una era rimasta aperta e dentro c’era la Zamboni bianca come il latte.

«Porco boia! La conosco quella!» disse Mansueto.

«Shh! Fa’ silenzio. Controlliamo le altre.»

Tirò le cerniere con le mani che tremavano. Erano loro: il tizio sulla sedia, la Zamboni, Borgogno e l’Antonio. «Puttana miseria, Mansu. E ora che facciamo?»

Mansueto sollevò le spalle. «Niente. Siamo arrivati tardi. Questi sono morti.»

Cesare sospirò guardando Antonio. Lui era simpatico. Avevano giocato a carte qualche volta e ora se ne stava lì, con gli occhi chiusi e le mani sul petto.

In una mano stringeva un foglietto. Lo strappò dalle dita fredde e lo spiegò: “piscio”.

«Piscio? Che cavolo…?»

La porta si aprì con un tonfo. La Doris li guardava con occhi furenti.

Per punizione furono relegati nelle loro stanze.

Cesare passò il pomeriggio nel terrore. Si aspettava che uno di quei mostri entrasse in camera.

Alle cinque gli portarono la cena: polenta e gorgonzola. Quando aprirono la porta per poco non gli venne un colpo. Alle sette anche l’Alfio venne a dormire.

Per non doverla affrontare, si finse addormentato mentre la Doris infilava il catetere al compagno.

Rimasero soli.

«Lupi e giocattoli non sono da bere» disse Alfio sfilandosi il catetere. Come ogni sera.

«Su questo non ci piove.» Si rigirò nel letto. In fondo anche lui non era che un vecchio incapace. Non si sarebbe mai aspettato di provare ancora tanta paura alla sua età. Di sicuro quella notte non sarebbe uscito per pisciare.

Le posate tintinnavano contro tazze e piattini. Cesare teneva le mani sulle ginocchia senza perdere di vista i tavoli. Contò le sedie vuote e realizzò che mancavano due persone. L’Enrico Uber e… Il Mansueto!

L’inserviente gli mise davanti la tazza col caffellatte, lui gli afferrò la manica. «Dì, giovane, dove sono l’Uber e il Mansueto?»

L’uomo inarcò la bocca e fece schioccare la lingua. «Purtroppo ci hanno lasciati. È la vita.»

La dentiera si staccò dal palato e cadde sul tavolo. Aveva dimenticato l’adesivo. La raccolse e osservò i propri denti. Mansueto aveva pagato per essergli stato amico. Quel poco di fame che gli era rimasta sparì.

Il mostro aveva chiesto sei cadaveri. Ieri ce n’erano quattro e ne avevano presi altri due. Avevano scelto Mansueto perché li aveva scoperti? Ma allora perché non lui?

Come il trillo di un campanello un’idea lo colpì. Piscio.

Era quello che intendeva Antonio? Che ci si poteva difendere dagli alieni con l’urina umana?

Questo avrebbe spiegato perché non erano entrati in camera sua: Alfio la faceva sempre fuori e l’odore era tremendo.

L’inserviente aveva un foulard attorno al collo. O aveva un terribile mal di gola o anche lui era un maledetto vegano.

Controllando il resto del personale notò che più d’uno aveva il collo coperto. Di sicuro era un modo per coprire una cerniera o qualcosa del genere. Erano lì per preparare il banchetto. Erano lì per mangiare i cadaveri dei suoi amici.

Ma non li avrebbero mangiati.

«Cesare, hai dormito male anche stanotte?» La Maria lo guardava con un misto di curiosità e preoccupazione.

Cesare infilò la dentiera e la spinse contro il palato. «Questa notte, sì, Mariuccia. Ho dormito di merda.»

«Beata Vergine! Ancora coi tuoi modi da operaio!»

«Da manutentore, mia cara.» Si alzò in piedi. «Ora scusami, ma ho da fare.»

Si avvicinò ad Alfio e gli mise una mano su una spalla. «Non si è morti finché non si è morti, vecchio mio. Grazie.»

Quello sorrise. «Quando la torta subebere non si lascia.»

«Parole sante, Alfio. È ora di fare qualcosa.»

Cesare aspettò che la ragazza di turno pulisse la bocca alla signora Bottesi che aveva rimesso anche quella mattina. Uscì in corridoio e premette il tasto dell’ascensore.

Riordinò le idee. Doveva salire al quarto piano dai lungodegenti e raccogliere tutti i cateteri pieni dalla notte e poi tornare nella sala mortuaria. Sarebbe stato un po’ schifoso, ma doveva farlo.

Salì. Il corridoio era deserto. Entrò in una camera dopo l’altra sfilando con malagrazia le buste di piscio attaccate ai letti di una dozzina di derelitti. Infilò tutto in una federa, tornò indietro e prese l’ascensore.

Il ding dell’apertura porte al piano sembrò la campanella di un ring. Aveva il fiato corto. Uscì in corridoio.

Nessuno.

Si diresse verso la sala mortuaria e sentì le voci rauche del giorno prima. Prese un sacchetto, lo infilò sotto un’ascella come una cornamusa e afferrò il tubicino tra le dita. Era pronto a schizzare piscio in faccia a chiunque gli si fosse parato davanti.

Con la mano libera prese la maniglia e contò: uno, due, tre.

Balzò dentro con tutta la furia concessagli dall’età e spruzzò i due uomini vestiti da medico.

Questi strillarono e caddero a terra. Ora vide che c’era anche la Doris. La donna gli si buttò contro furibonda. La spruzzò, ma quella lo agguantò per il bavero.

Era un essere umano, dopotutto. «Ancora lei! Adesso le faccio passare io la voglia di sbirciare!»

La donna mise una mano nella tasca dell’uniforme. La sua espressione cambiò dall’ira alla sorpresa.

Cesare sorrise, infilò la mano in tasca e trovò lo spray al pepe rubato il giorno prima. «Cerchi questa, cicciona?»

La spruzzò negli occhi, quella si mise a urlare e cadde in ginocchio tenendo le mani sulla faccia.

Cesare sentiva gli occhi pizzicare. Ignorò il fastidio, raccolse un candelabro dall’altare e lo calò sulla testa dell’infermiera con tutta la frustrazione della vecchiaia.

La donna stramazzò a terra.

Riprese fiato. Si chinò su uno dei dottori, slacciò il colletto e notò un solco che faceva il giro. C’infilò un dito e una maschera si aprì col suono di uno strappo. Un testone da mollusco s’allargò sul pavimento. Questa volta non pulsava e non cambiava colore.

Rimase qualche istante ad ammirare la propria opera e si rialzò: era arrivata l’ora di fare ciò per cui era venuto. «Rendiamo immangiabili questi manicaretti.»

Aprì le buste per cadaveri stese a terra. Mansueto aveva un’espressione serafica.

«Dormi tranquillo, amico mio. Nessuno profanerà il tuo corpo.» Raccolse dalla federa un catetere e innaffiò d’urina la salma dell’amico.

Vuotò tutte le buste e uscì. Chiamò l’ascensore.

Assieme al campanello sentì una fitta terribile alla testa. La vista si oscurò mentre le parolacce della grassa infermiera gli riecheggiavano nelle orecchie.

Aprì gli occhi. C’erano altre persone con lui. Una era la Doris. Aveva ancora gli occhi rossi e gonfi.

L’altro era il direttore, mentre l’ultimo non lo conosceva. Un tipo elegante. Con una sciarpa.

«Ecco, si è svegliato» disse l’infermiera.

Si trovavano in una sorta di locale tecnico e lui era legato a una tubatura.

Il direttore si aggiustò gli occhiali sul naso. «Signor Cesare, Doris mi ha riferito che sta cercando di sabotarci. Ma lei lo sa quanti soldi ci danno i nostri amici Vegani per questo posto? Lei crede che in ogni casa di riposo si mangi polenta e gorgonzola, panada, tortei di patate e soppressa frullata? Nossignore! Semolino!» Si diede un contegno e sospirò. «Gli anziani sono così caparbi. Sono a un passo dalla fine e si aggrappano a quei barlumi di vita con tutta la dentiera.» Scosse il capo. «Mi permetta di presentarle il presidente Tomasi. Anche conosciuto come Gsngroh quarto del clan Borloghl. Il nostro miglior finanziatore.»

L’uomo elegante slacciò la maschera e il suo testone molliccio si gonfiò liberando suoni bagnati.

«Signor Cesare» la voce era la stessa di quella notte. «C’è qualcun altro che sa della natura di questo luogo?»

«E come faccio a saperlo? Qui la metà è decrepita e l’altra metà rincoglionita.»

«Lei ha guastato un’ottima portata, sa? Beh, non che questo sia un vero problema: qui il cibo ben stagionato abbonda. Abbiamo scelto questo luogo apposta. Come si dice? Ceniamo in pace.»

Il vegano si rivolse al direttore «Lo faccia lavare bene: puzza troppo così com’è. Non riesco ad interrogarlo avanti, comincio a sentirmi male. Tornerò più tardi.»

Raccolse la maschera e la premette sulla testa finché non tornò ad avere l’aspetto di un uomo d’affari. Uscì.

Il direttore si rivolse a Doris. «Lavalo bene. Penso che lo terremo come bis per il banchetto di oggi pomeriggio.»

«Però, io non lo ammazzo.»

«Ma no, ma no, tranquilla. Hanno i loro sistemi, i loro riti. Faranno loro. Tu lavalo e lascialo qui.»

Doveva essere passata l’ora di pranzo. Era ancora nudo e legato al tubo, ma almeno si era asciugato.

Forse il direttore aveva ragione. Forse davvero la vita di un vecchio come lui non valeva la pena di essere salvata. La sua era segnata.

Cesare sbuffò. «Ho solo riempito di piscio i cadaveri dei miei amici. E mi sentivo un eroe.» Invece era finito prigioniero degli alieni e, presto, sarebbe stato anche il loro pasto. Ormai non doveva mancare molto all’incontro.

La porta si aprì.

«Non felpare la trottola o s’intrupperanno.»

Alfio! Il compagno di stanza gli sorrideva. Si avvicinò con uno dei coltelli del refettorio e lo usò per tagliare la fascetta di plastica che lo legava al tubo.

«Alfio, vecchio pazzo! Ma allora tu sapevi tutto!»

Il vecchio sorrise e annuì.

«Per questo pisciavi sempre a terra?»

«Non si mangiano le papere.»

«E nemmeno i nostri amici, perdio! Anche se resta poco da vivere. Non si è morti finché non si è morti!»

Cesare prese il coltello dalle mani di Alfio e lo alzò come una spada.

«Combatteremo!» Poi guardò l’Alfio. «Tu hai un’idea? Ho svuotato tutti i cateteri e ho passato tutto il tempo legato a questo stupido tubo…» Spalancò la bocca folgorato da un’idea. «Vieni, Alfio! Seguiamo questo tubo.»

Uscirono e percorsero il corridoio fino ad una porta metallica. Spinse la maniglia anti-panico e si trovarono all’aperto sul retro dell’edificio. Cesare andò sicuro ad un grosso rubinetto rosso chiuso con due coperchi a vite. «Il sistema antincendio di una struttura così si attacca direttamente alla rete idrica. E c’è sempre un attacco motopompa per il passaggio in pressione ai montanti e per… l’innesto dei vigili del fuoco.»

«Hai scorreggiato?»

Cesare rise, svitò uno dei coperchi, allentò un rubinetto facendo leva col coltello e si mise ad orinarci dentro.

«Se ne hai un po’, Alfio, è il caso che la tiri fuori.»

Salirono. Cesare era nudo, ma tanto sembrava che avessero evacuato il ricovero: non c’era nessuno e non si sentiva alcun rumore.

Entrarono nelle cucine. Cesare raccolse un rotolo di carta casa. Mentre lo svolgeva qualcosa oltre la portafinestra rapì la sua attenzione. Un elicottero stava atterrando nel cortile. Era molto meno rumoroso di quanto si sarebbe aspettato. Mentre le pale rallentavano, vide scendere degli uomini in fila. Ne contò venti. Le pale si fermarono. Una di queste si piegò su sé stessa, diede una grattata alla superficie del mezzo e tornò dritta.

«Quello è un elicottero come io sono uno scaldabagno!» Era arrivata la delegazione vegana e con lei era arrivata l’ultima mano di briscola. Accese i fornelli e vi gettò sopra la carta.

Alfio lo guardò con timore. «Stuzzichiamo la gheppia o ci facciamo fuori?»

«No, no. Usciamo di qui!»

Attraversarono il cortile mentre tutti gli idranti a soffitto del piano cominciarono a spruzzare acque e urina. In quell’innaturale silenzio, sentirono gli strepiti provenienti dall’interno. Risero e ballarono sotto la pioggia leggera.

«Caspitate le prefelle!»

«Porta pazienza, Alfio. Stanno solo lavorando. Alzo il volume.»

Cesare si alzò dalla poltrona, raccolse il telecomando e alzò.

C’era un gran viavai di poliziotti, infermieri, dottori… Con quella confusione si faticava a seguire il TG.

Tornò a sedersi.

«Sono contento che ci spostino. E tu?»

«Ssh!» fece Alfio con un dito davanti alla bocca.

Alla tv c’era la casa di riposo. Era difficile capire cosa dicessero, ma sotto passava la scritta: “Alieni in Trentino. ET: veniamo in pace, vogliamo solo le vostre carcasse fresche.”

«E non le avrete, bastardi. Dico bene, Alfio?»

Passò Maria a braccetto con un’infermiera.

«Cesare?» Si spostò un riccio bianco dalla fronte. «Ma è vero? Mentre gli ospiti erano drogati tu e Alfio avete salvato tutti?»

«Maria cara, siediti vicino a me a pranzo e ti racconterò ogni cosa. Incluso come abbiamo pisciato in testa a quei musi verdi.»

Uscendo la donna gli dedicò un sorriso e Cesare diede di gomito ad Alfio.

«Visto? Non si è morti finché non si è morti!»

Guardò fuori. Finalmente aveva smesso di piovere.

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