Eravamo alti, ormai. Duemila metri, forse più. Appena lasciato il paese in fondo alla valle aveva cominciato a nevicare e, più si saliva, più il vento sembrava cattivo. Era già da un pezzo che camminavamo sul sentiero immersi nella tempesta. Uno di quei momenti in cui rimpiangevo i tempi in cui si poteva viaggiare in auto, senza mutanti e predoni per le strade. Ero così stanca che ad ogni passo pensavo che avrei potuto morire lì, in quella neve di merda. Almeno mi sarei riposata. Il vento mi buttava i capelli davanti agli occhi e sibilava tanto forte che mi accorsi della voce di Manuel solo quando gli fui praticamente addosso.
«C’è una casa qua davanti!» gridò tenendosi il berretto. «So che sei una ragazza sveglia e che non serve dirtelo, ma se non mi reggi il gioco ce li avrai tutti sulla coscienza».
Che figlio di puttana. Annuii e riprendemmo a camminare per raggiungere l’edificio. Era uno di quegli chalet alpini che avevo visto ogni tanto nei presepi. Una bella casa di legno scuro piantata in una vasta radura. Ci avvicinammo, Manuel sollevò le mani e si mise a gridare il solito “Homo sapiens”.
La porta si aprì e uscì un uomo spaurito con un dito sulla bocca e un fucile nell’altra mano. «Sst! Non fare casino!» disse in un italiano da parodia nazista. «Non è sicuro stare fuori. Venite dentro».
Era insolito che qualcuno ci portasse in casa così, senza domande, ma non tentennammo nemmeno per un secondo. Entrammo in un atrio caldo, profumato di legna bruciata. Una donna ci puntava un fucile, mentre l’uomo richiudeva la porta d’ingresso.
Si portò davanti a Manuel e ci squadrò da capo a piedi. «Homo sapiens?»
«Sì, te lo giuro».
«Di dove venite?»
«Da sud».
«Na, du Stoanesel! Questo lo so!»
«Dal Lazio. Dobbiamo raggiungere la Svizzera».
«Perché?»
«Mia moglie sta là. Lei è Ester» mi indicò, «mia figlia. Abbiamo cibo, ci serve solo un riparo finché smette di nevicare».
L’uomo ci guardò ancora, indugiò su di me, poi annuì. Disse qualcosa in uno strano tedesco e la donna posò il fucile. Attraversammo uno stretto corridoio con inquietanti animaletti impagliati alle pareti. Una donnola e una faraona, o qualcosa del genere.
«Che schifo» mi uscì.
Il crucco rise. «Stai tranquilla, non ti mordono».
Lo imitai per fare la simpatica. Entrammo in una sala molto grande con un caminetto acceso. Una visione, mi ci buttai davanti e la morte evaporò dai miei pensieri.
Anche Manuel si tolse il berretto e spostò una sedia per mettersi vicino al fuoco. C’erano due tavoli, una panca che correva lungo i muri e un’altra porta da cui due bambine identiche ci guardavano.
«Ciao» dissi, e le bimbe corsero via.
Il tedesco si sedette. «Mia moglie vi prepara un tè, così vi scaldate un pochettino».
Manuel gli sorrise «Che gentile».
«È tanto che siete in giro, eh?»
«Un paio di mesi».
«Due mesi, una settimana e tre giorni» lo corressi. «Adoro le gite di famiglia».
Manuel lanciò un’occhiata minacciosa, ma sapevo che non mi avrebbe fatto niente davanti a quelle persone. «Voi, invece?» chiese sviando l’attenzione dal mio sarcasmo. «Che ci fate qui in mezzo al niente?»
«Questo era il ristorante dei miei genitori. Stiamo bene qui: cacciamo, abbiamo un bel magazzino… Solo quando che c’è la neve diventa un po’ una merda, sai».
«E mutanti? Ce ne sono?»
Il tedesco sollevò le spalle «Solo uno».
«Pericoloso?»
Il crucco annuì «Quando che nevica è meglio non stare fuori, perché lei è tutta bianca e non si vede».
«È una donna?» chiesi.
Quello fece di sì con la testa. La tedesca entrò con due tazze, ci porse il tè sorridendo e si sedette.
«Comunque io mi chiamo Paul. Lei è la Elisabeth. C’è anche il mio fratello Dieter che è a spaccare un po’ di legna giù di sotto e le mie figlie da qualche parte».
«Piacere, Manuel. E lei, come dicevo, è mia figlia Ester».
Sentire ancora “figlia” mi fece ridere.
Manuel mi picchiò sulla testa. «Non la chiamo mai per nome e questo la diverte sempre. Vero, tesoro?»
«Come no».
Si rivolse alla donna. «Grazie per l’ospitalità, a proposito».
Elisabeth sorrise. Doveva essere sulla trentina e notai che Manuel la guardava col suo occhio allenato da pappone di merda.
Paul disse qualcosa nella sua lingua, poi si rivolse a noi. «Lei non parla italiano».
«Non siamo più in Italia?» chiesi.
«Sì, ma è anche Südtirol. Solo nelle città si parlava italiano. Bolzano, Meran… Gli altri nessuno lo parlava neanche prima. O solo poco poco».
«Solo tedesco?»
Paul annuì e inarcò le sopracciglia «Dialekt».
Manuel si alzò. «Beh, rimarremo solo finché non smette.» Si sfilò i guanti. «Dimmi di più su questo mutante».
«La Helga. Era la donna di quello che aveva la pista da sci».
Mi levai il maglione. «Che le è successo?»
Lo sguardo di Paul cadde sul mio petto. «Era vicino a Vienna quando c’è stata una delle bombe. Quando che è tornata a casa era già un poco mostro. E si è mangiata il suo marito. Ha perso tutto il colore e è diventata bianca come il latte. Quando che nevica viene qui vicina e si vede solo troppo tardi.» Abbassò la voce «ha ammazzato la Sonia, la moglie di mio fratello e poi, un mese e mezzo fa, abbiamo trovato anche la mia nipote. Quattro anni. L’ha fatta a pezzi e lasciata nella neve.» Scosse la testa e sospirò. Accennò a Manuel: «Sei un cacciatore di mutanti tu?»
«Io? No. Cosa te lo fa pensare?»
«Fai viaggi, hai due pistole… Non so.»
Manuel prese un ciocco di legno dal lato del caminetto e lo buttò nel fuoco. «Le ho prese da una centrale di polizia abbandonata.» Allungò le mani per scaldarle alla fiamma. «No, io sono un tipo tranquillo».
Quella stronzata m’infastidì, così sorrisi a Paul che continuava a sbirciarmi le tette. «Non cacciamo i mutanti: anch’io sono un mutante».
Lui impallidì e a me venne da ridere.
Manuel si voltò a guardarmi. «Ti sta prendendo in giro. Lo fa sempre, è una scema».
«Non scema, mutante».
Il tedesco ridacchiò nervoso: «A me non sembri una mutante. Dov’è che sei mutante?» e mi guardò ancora le tette.
«Non tutte le mutazioni sono visibili» dissi con tono malizioso.
Manuel s’indispettì, doveva aver capito il mio gioco. Mi buttò il maglione. «Finiscila di prendere tutti per il culo e copriti!»
Era chiaro ad entrambi che se avessi voluto sfuggirgli avrei dovuto per forza ricevere l’aiuto di qualcuno, e potevo portare Paul dalla mia parte. Ero solo una ragazzina e Manuel un bruto del cazzo. Da sola non sarei sopravvissuta una settimana in quella landa selvaggia che era diventata l’Europa. Non avevo il fisico per combattere o restare a lungo senza cibo.
Mi rimisi il maglione. Ero soddisfatta: amavo stuzzicare quel figlio di puttana di Manuel, e lui sapeva che ero capace di sedurre Paul.
I maschi sono così schiavi del loro istinto che ho spesso pensato che abbiano un vero handicap nei rapporti sociali. E ora potevo ringraziare il mio aspetto. Sapevo che, se fossi stata un cesso, non sarei sopravvissuta tanto.
La neve continuava a cadere ipnotica fuori dalle finestre appannate. Ero esausta, mi sdraiai su una panca e mi addormentai.
Mi svegliarono delle urla feroci fuori dalla casa. Sembravano parole, ma qualcosa che non riuscivo a capire. Mi sollevai, erano tutti radunati nello stanzone. Paul, Manuel e un altro uomo che immaginai essere Dieter, erano affacciati alle finestre, mentre Elisabeth stringeva le due gemelline di sei o sette anni. Le bambine tremavano.
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. «Che succede?»
«È la Helga» sussurrò Paul.
Di nuovo quell’urlo. Fuori si vedevano solo pochi alberi carichi di neve, il terreno bianco e il cielo dello stesso colore. Tra tutto quel candore, non si distingueva quasi nulla oltre il lento piovere di fiocchi.
«Cosa dice?» chiese Manuel.
«Credo “Kems auser Walsche”».
«E che vuol dire?»
«Italiani venite fuori. Non parla bene. Forse vi ha visti entrare».
Elisabeth disse qualcosa al marito che le rispose in quel tedesco deforme. Non capivo una parola, ma era chiaro che la donna fosse spaventata e Paul irritato. Dieter fissava la finestra, ma non mi era chiaro se stesse guardando fuori o se fissasse il vetro, assorto in chissà che pensieri.
Helga non si fece più sentire e arrivò la sera. Manuel offrì per cena un coniglio a cui aveva sparato due giorni prima. Elisabeth cucinò per tutti, mentre i due tedeschi portavano su un po’ di legna per caminetto e stufa. Dieter era più giovane del fratello. Aveva la pelle rossastra e butterata, e una ispida barba bionda. Avevo notato che, quando pensava di non essere visto, si fissava le mani bisbigliando. Lo trovavo inquietante, ma considerai che aveva perso moglie e figlia da poco e che avesse tutto il diritto di sembrare un po’ fuori di testa.
Le gemelle erano incuriosite da me. Mi fecero vedere dei libri e giocammo un po’ con le bambole. Erano carine Alma e Greta. I loro sorrisi erano quelli di chi ignorava come le cose fossero precipitate dopo la guerra. Non avevano mai visto un mondo intatto e non potevano fare confronti.
Prima di mangiare andai in bagno. Me la presi comoda: era una vita che non sedevo su un water pulito. Appena uscii Manuel mi si parò di fronte. «Sii gentile con ‘sti poveretti, lasciali in pace. Non costringermi a farli fuori, ok?»
«Sta’ buono, Manuel. Non ho detto niente».
«Questa cazzata della mutante mi ha rotto i coglioni».
«Ma…»
«Ma un cazzo. Piantala o prima li ammazzo, e poi ti riempio di botte».
Dio, quanto l’odiavo! Sospirai. «Agli ordini».
Durante la cena rimasi per lo più in silenzio. Elisabeth provò a dire qualche parola in italiano, ma rinunciò presto. Forse l’aveva imparato a scuola, ma era passato troppo tempo.
Paul parlò un po’ con Manuel, mentre Dieter ascoltava le bambine con un sorriso stampato. Non mi pareva che seguisse davvero i loro discorsi.
Manuel si assicurò che dormissimo vicini nella sala del caminetto. Lì era bello caldo e sarei stata bene, ma non avevo molto tempo e dovevo fare la mia mossa prima di mettermi a dormire. Così finsi di andare in bagno e feci segno a Paul di avvicinarsi.
Sembrò sorpreso, ma controllò che la moglie non ci vedesse e mi venne incontro. Lo tirai in bagno e chiusi la porta.
«Paul, devi aiutarmi, Manuel vi ha mentito. Non è mio padre, è un predone. Mi ha rapita dopo aver ammazzato i compagni con cui ero nascosta. Mi vuole portare in Svizzera per vendermi come schiava sessuale in uno di quei grossi rifugi dove prendono solo chi porta una donna».
«Schiava?» disse il tedesco corrugando la fronte.
«Sessuale, sì. Mi puoi aiutare?»
«E come?»
«Devi ammazzarlo mentre dormiamo».
Paul scosse la testa come se la mia idea fosse improponibile.
«Oh, ti prego!» insistetti. «Lo chiederei a Elisabeth, se mi capisse! Lei lo farebbe!»
«Non ammazzo uno che dorme».
«Ti scopo! Giuro che se mi aiuti io ti scopo».
Questa volta il suo sguardo tradì un tentennamento. Attesi qualche istante, Elisabeth lo chiamò.
Lui mi prese per le spalle e mi fissò. «Na guat, Ester, ti aiuto. Ma facciamo in qualche altra maniera. Ora fammi andare.» Uscì dal bagno.
Tornai al mio posto cercando di sembrare tranquilla. Le cose non stavano andando come speravo.
Manuel aspettò che fossimo soli, mi assicurò a un termosifone con la solita catena e si spostò lontano. Sperai per diverso tempo di vedere Paul muoversi nel buio, ma mi addormentai.
Al mattino nevicava ancora. Marito e moglie erano in cucina e le bambine apparecchiavano la tavola per la colazione.
Manuel riordinava le sue cose. Io mi ero sistemata appena libera dalla catena. Non volevo farmi trovare impreparata. Finsi di voler aiutare e mi avvicinai a Paul. «Allora? Cos’hai pensato?» bisbigliai mentre Elisabeth era distratta.
Lui fece una smorfia. Gli strizzai le tette contro un braccio. «Ho bisogno di te!» gli sussurrai all’orecchio.
«Non così. Gli parlo, ok? Gli dico che ti lascia qui».
«No, no, Paul…» cominciai, ma Manuel entrò in cucina, allora mi morsi un labbro e mi misi a tavola.
Ogni volta che cercavo lo sguardo del tedesco lui schivava il mio. Ero così frustrata dal comportamento di quell’idiota! Cercavo di salvarlo e lui m’ignorava.
Le bambine se ne andarono a giocare, mentre Elisabeth si raccomandava nella sua lingua, o almeno quello era il tono.
Dieter se ne stava con lo sguardo perso verso il soffitto. Dopo un po’ disse qualcosa e si allontanò da tavola. Io ed Elisabeth sparecchiammo e Manuel si avvicinò alla finestra lasciando Paul al tavolo.
«Si sta aprendo» disse. «Penso che in mattinata potremo levare il disturbo».
Guardai Paul, lui incrociò il mio sguardo per un istante, ma non sembrò badarvi. «Devo dire una cosa, però…» cominciò.
Io mi appoggiai al lavandino e buttai lo sguardo fuori dalla finestra per non mostrare il panico che mi accorciava il respiro: Paul stava per farsi ammazzare.
Improvvisamente notai un movimento fugace fuori, tra gli alberi. Helga.
«Io vorrei tenere qui lei» disse quel crucco coglione.
Manuel si girò a guardarlo. «Cosa?»
Elisabeth vicino a me continuava a infilare i piatti sotto l’acqua senza capire una parola.
«Vuoi tenerti Ester? Mia figlia?»
Una delle bambine fuori dalla cucina corse su per le scale.
Manuel si avvicinò a Paul col mento sollevato. «Cos’è ‘sta stronzata? Vuoi farmi incazzare?»
Il tedesco si alzò. «Non credo che lei è davvero tua figlia. Non sono un stupido».
L’urlo di Helga “venite fuori italiani” risuonò rauco e innaturale, ma un grido diverso lo coprì: Elisabeth.
Seguii il suo sguardo e vidi Dieter. Era coperto di sangue, gli occhi sbarrati e la fronte sudata. Sembrava sotto shock.
Paul si avvicinò e si scambiarono poche frasi. Non capivo nulla, ma sembravano tutti atterriti.
Afferrai Paul per un braccio. «Cosa succede?»
«La Helga!»
«Cosa? Cos’ha fatto?»
Paul cominciò a piangere. «Ha trovato Greta nella legnaia!»
Corse via seguito da Elisabeth, mentre Dieter si lasciava cadere a terra. Aveva sangue sulle mani e sui vestiti, fin sulla barba.
Manuel mi si avvicinò. «Che cazzo gli hai detto?»
«Non fare lo stupido! C’è il mutante, diamo una mano».
Era la mia unica occasione: Paul aveva parlato troppo e presto. Manuel li avrebbe ammazzati tutti e mi avrebbe portata oltre. Roba già vista. Se volevo andarmene dovevo farlo subito e correre il rischio da sola.
La voce inumana di Helga riempì il silenzio, Manuel sgranò gli occhi dalla paura.
Presi a correre e senza pensare infilai la porta. Il vento gelido mi colpì e mi sentii una stupida. Ero uscita solo col maglione.
Paul correva avanti gridando come un pazzo. La neve fuori dalla legnaia era tinta di rosso. Elisabeth piangeva sul corpicino di una delle gemelle steso sui ciocchi di legno impilati. La testolina era aperta da un taglio verticale e gli occhi fissavano il vuoto.
Cercai di riprendermi: dovevo scappare subito.
Mi misi a correre. Non solo ero uscita senza il giaccone e senza lo zaino con sacco a pelo e provviste, ma le mie impronte avrebbero portato Manuel ovunque mi fossi diretta. «Idiota!» gridai.
«Dumm’s Madl!» La voce era quella gorgogliante del mutante.
Non aveva gridato, ma l’avevo sentita benissimo. Mi era vicina, ma non la vedevo. Sentivo il suono del suo fiato, ma non volevo allungare le mani o me le avrebbe staccate.
Delle dita gelide mi presero il viso, il fiato mi si fermò in gola e incrociai due orbite bianche spalancate di fronte a me. Ora la vedevo: Helga.
Ormai non era che il ricordo di una donna grinzosa. Aveva la pelle glabra, liscia e cadente, candida come le candele nelle chiese. Mi teneva la testa senza stringerla, notai una ruga più profonda a disegnare un sorriso. Sussurrò qualcosa, c’era una dolce malinconia negli occhi di quella nonna triste e deforme.
La voce di Dieter mi fece voltare. Stava lì con un’ascia in mano a gridare cose che non capivo.
Helga mi lasciò il viso e scomparve di nuovo.
Il tedesco si avvicinò come una furia. Non si era ripulito dal sangue della nipotina e realizzai che Helga era bianca, ma non aveva nemmeno una goccia di sangue addosso, mentre l’ascia di Dieter gocciolava sulla neve.
«Sei stato tu!»
Una mano bianca gli avviluppò il mento e lo strattonò indietro. L’uomo finì disteso nella neve e Helga gli fu sopra. La bocca si allargò fuori misura mentre il resto del corpo teneva a terra la preda. Avvolse Dieter con un suono sbavato che mi fece inorridire. L’homo sapiens gridava mentre il mutante lo faceva scivolare nel suo stomaco.
Non potevo starmene lì a guardare, stavo gelando. Non potevo farcela. «Fanculo Manuel».
Rientrai in casa e mi buttai in un angolo tirandomi addosso il giaccone. Tremavo e non solo per il freddo.
Manuel aveva acceso il fuoco e se ne stava seduto con una Beretta in mano a masticare una delle sue gomme. «Sei proprio stronza».
«Non è stata Helga a uccidere le bambine».
«Chissenefrega. Tra poco qui saranno tutti morti».
«Perché?»
«Ti ho vista dalla finestra. Volevi andartene, eh? E, non raccontarmi cazzate: hai parlato col crucco, solo che sei un’idiota e hai fatto tutto per niente».
«Tanto ormai… Morire di freddo o per una pallottola è uguale».
«E allora perché sei tornata?»
Alzai le spalle. Le lacrime mi scaldarono le guance, ma era per la piccola. Ero sicura che Helga sapesse di Dieter e volesse metterci in guardia dicendoci di uscire, ma non l’avevamo ascoltata.
Manuel sospirò. «Te lo dico io: perché sai che non ti ucciderò. Sparerò a tutti, anche alla bambina che tanto non sopravvivrebbe al viaggio. Ma non a te. A te ti porto in Svizzera a farti scopare come una cagna per il resto della tua vita di merda, mentre io avrò una casa mia e tutto quello che voglio».
Quanto l’odiavo. Avevo aspettato per vigliaccheria, ma era giunta l’ora di finirla. «Piano B». Mi alzai e raggiunsi la cucina.
Manuel mi seguì. «Che fai?»
Aprii un cassetto e raccolsi un coltello.
«Guarda che posso venderti bene anche con qualche buco in più. Non ti azzardare o ti sparo nelle braccia».
Posai la lama contro la gola. «Tu non mi venderai a nessuno».
«Non fare cazzate, Ester».
«Uff…» Ci voleva un taglio secco e profondo.
«Smettila!»
«Sta’ a guardare» gridai. Però esitavo. L’idea del dolore mi spaventava.
Manuel ringhiò, calciò una sedia e mi puntò la pistola. «Mi hai proprio rotto i coglioni! Vuoi morire? Bene!»
Lo sparo risuonò come un tuono. Una fitta mi premette nella pancia, il bruciore mi sconvolse e caddi in ginocchio. Lasciai il coltello e mi sdraiai.
Il sangue si allargò fino a bagnarmi le dita stese sul pavimento. Manuel si chinò su di me deluso. Aveva fatto tutto da solo, meglio per me.
La vista cominciò ad appannarsi, mentre la vita scivolava via assieme al dolore, poi successe come la prima volta.
Dal buco nel ventre cominciò a uscire lo sciame. L’avevo immaginato spesso, sempre sperando che non succedesse. Manuel urlava mentre i lunghi lombrichi sanguinolenti gli scorrevano su per le gambe a cercare tutti gli orifizi fino a bocca e narici.
Provai la stessa confusione della prima volta, ma senza il senso di colpa.
Aprii gli occhi nuovamente lucidi. Tutto il dolore era scomparso, ero forte, carica di adrenalina rabbiosa. Nella mano la Beretta fumava, mentre nella bocca si mescolava ancora il disgustoso sapore di sangue e mentolo della gomma di Manuel.
Vidi il mio vecchio corpo, il corpo della mia Ester: una bellezza di sedici anni, morta con un buco in pancia.
«Hai visto che sono un mutante, testa di cazzo?»
Manuel c’era anche la prima volta. Anche allora era stato lui a spararmi, ma era troppo impegnato a far fuori gli altri per notare lo scambio.
Amavo Ester, ma mentre morivo, senza volere, mi ero preso il suo corpo. Avevo scoperto così la mia mutazione. I vermi non chiedevano, quindi non si poteva dire che fosse stata colpa mia, ma il dolore e il senso di colpa erano ancora tanto amari.
Quel corpo era il suo ultimo ricordo. «Avevo deciso che avrebbe continuato a vivere grazie a me, e invece… Che figlio di puttana».
Raccolsi la mia roba. Dovevo andarmene prima che Paul ed Elisabeth rientrassero e mi accusassero di roba. Anche per loro quella era stata una giornata di merda e non avevo voglia di affrontarli. Almeno ora avrei potuto cavarmela da solo.
Fuori incrociai Helga, gonfia come un’immensa pannocchia. Stava digerendo Dieter.
«Grazie, nonnina.» Le sorrisi. «Viva i mutanti del cazzo».
Chiusi il giaccone e me ne andai.