Due anni che dico che m’ammazzo, alla fine l’ha fatto lei.
L’insegna del Drago d’oro brilla di neon e speranza. Mi asciugo le lacrime e spingo la porta, un campanello suona. Odore di cavolo e olio fritto.
Una signora mi viene incontro «Buonasela». Ha dita grinzose e occhietti che ridono.
«’Sera. Sono qui per il signor Fu Xi Chen». Spero d’averlo detto giusto.
Si fa seria e mette un dito sulla bocca. «Vieni».
Tavoli tondi, poca gente. La signora avrà l’età di mamma, ma ha un fisico asciutto che…
Ma che sto pensando? Lidia, perdonami, sono qui solo per te.
Entra in cucina e mi fa il gesto del gancetto con l’indice.
Dei cuochi mi sbirciano attraverso il vapore.
«Salve». Immagino di non essere il primo che entra piangendo.
La donnina apre una porta e mi lascia passare.
Minchia! È pieno di Arbre Magique penzolanti. «Ma quanti sono?»
«Siedi.» Indica un tavolo «Chen alliva».
C’è odore di funghi marci, che schifo. La signora chiude. C’è un’altra porta, verde, di legno. È coperta di incisioni geometriche. Scricchiola, si spalanca e la stanza si riempie di fumo.
«Oddio!» Mi corpo il naso: è quell’odore.
La porta sbatte. Un ragazzo cinese si siede dall’altro lato del tavolo. Occhiali da sole e maniche corte. Mi guarda, sorride, scuote la testa e tira fuori un pacchetto di Malboro.
«Salve. Sono Robi».
Sfila una cicca. «Lobi» l’accende, sbuffa verso gli Arbre Magique e corruga la fronte «Chi ti detto di me?».
«Mi ha consigliato Padre Giorgio della parrocchia del Sacro—»
«Sì. Allola?»
«È lei Chen, l’eletto?» Mi sembra un po’ stronzo.
Annuisce.
«La mia ragazza si è… uccisa.» Cerco di trattenere le lacrime. «Padre Giorgio dice che i suicidi vanno all’inferno, ma io so che l’ha fatto a causa mia. L’opprimevo» invece ricomincio a piangere. «Spero che non stia pagando per me!»
«Sì, figo. Hai poltato soldi?»
Tiro fuori la roba dalle tasche della giacca. «Ecco» riverso tutto sul tavolo. «Ho duemila in contanti e delle collanine d’oro».
Solleva il groviglio dorato. «Lubate mamma?»
«Nonna».
Ride, tira il fumo e lo soffia fuori. «Se lagazza Infelno, basta. Sennò di più».
«Perché?»
«Pelché Infelno è una melda. Se vado pel niente, fanculo tu e tua lagazza».
«Non lo sapevo».
«Dale anche cellulale».
«Il cellulare?»
«Dale cellulale, dai».
Ma sì. Se Lidia è dannata non me ne farò più nulla.
Mi toglie lo smartpohne e lo infila nei jeans. «Hai oggetto di lagazza?»
«Gli occhiali» sono già sul tavolo, stronzo. «Come fai a sapere se c’è? Che è lei?»
«A Infelno nessuno geneloso. Tilo fuoli oggetto e pelsonache è sua viene e plende. Io gualdo e vedo tutto. Di vita, di molte. Di come scopava…» Sorride, la merda. «Cosa fai se c’è?»
Gonfio il petto, deglutisco. «Mi ammazzo e la raggiungo».
«Ah.» Mi guarda con la cicca penzolante. «Figo».
Si alza, fa scivolare soldi e collane sul tavolo e li fa cadere nell’altra mano. Urla qualcosa in cinese, la porta si apre ed entra la signora di prima. Le scarica nelle mani tutto quanto e quella mi guarda.
Chen apre la porta verde e fumo bollente mi entra in bocca, chiudo gli occhi mentre la porta si richiude.
La signora sorride. «Lui tolna plesto».
Annuisco. «Grazie».
Per padre Giorgio è tempo perso: Lidia è sicuramente all’Inferno. Penso che mi butterò dall’alto. Il palazzo RAI ha sei piani, mi pare. O è meglio il multisala sul lato del fiume?
La porta verde fa entrare un’altra ondata fumosa, tossisco.
Chen viene verso di me con passo molle. Non ha più gli occhiali di Lidia.
«Allora?»
Annuisce «Tua lagazza c’è».
Mi mordo il labbro, brucia. Maledetto me! Lidia, il suo sorriso… Scriverò una lettera ai miei.
«Lei detto di lasciale chiavi di appaltamento a me.» Allunga una mano.
Ancora soldi? Chissenefrega, tanto io che me ne faccio? Frugo la tasca della giacca.
La signora urla qualcosa. Il ragazzo risponde a tono, l’altra urla ancora e mima uno schiaffo. Chen sbuffa.
«Che succede?»
La donna s’inchina. «Tu scusa mio filio stupido. Fu, dile velità!»
Quello fa spallucce. «Lei detto niente. Lagazza Infelno non pelché sucidio. Lei plovato ammazza te.»
«Me?»
Si gratta il naso.
«Ma perché?»
«Pelché tu lotto coglioni. Semple dile mi ammazzo, mi ammazzo. Lei allola messo veleno. Ma poi bevuto pel sbalio».
Avevo scambiato i bicchieri mentre prendeva i pop corn. Nel suo ce n’era di più. «Sta stronza!»
«Tloia».
«E allora… Non mi uccido più!»
«Blavo.» Storge la bocca e abbassa gli occhiali da sole. «E anche smetti di lompele coglioni?»
Deglutisco. «Ridammi il telefono!»